domenica 22 marzo 2015

PERDERSI Lisa Genova - Cambridge, Massachusetts

Alice Howland ha 50 anni, è una ricercatrice, docente di Psicologia ad Harvard, organizza convegni, è autrice di numerose pubblicazioni, è una scienziata di successo. E’ anche felicemente sposata, con tre figli grandi, una vita ricca e felice.
Poi un giorno si accorge che inizia a dimenticarsi alcune cose. Va a correre e si trova in una piazza che non riconosce, e invece quella piazza è la stessa che conosce da 20 anni. Capisce che c’è qualcosa che non va, e va dal medico curante prima, dal neurologo poi. Fa esami su esami finchè le viene diagnosticato Alzheimer precoce.
Cosa succede nella sua vita dal momento in cui prende coscienza della sua malattia e deve dirlo ai suoi cari, questo il tema del romanzo.
Alice è combattiva, non si arrende, fa esercizi, legge, si scrive tutti i suoi impegni sul blackberry, si attacca post-it per tutta casa, prendere le medicine, andare a correre con John, lezione h. 11, andare dal medico: fatto, lei spunta e lotta. Ma non c’è cura per questa malattia “preferirei avere il cancro, pensa Alice”, e inizia a perdersi. Mai titolo può rendere meglio l’idea. Una parola dopo l’altra, dire forchetta per intendere ombrello, un volto dopo l’altro (ha un bel viso questa attrice, è brava. ed è la figlia minore), le mani che non accompagnano più il cervello, i deliri, i sogni, la solitudine. Non c’è cura per questa malattia, ero Alice, avevo una vita piena, un marito, tre figli, ora non so più niente, non so più chi sono, niente ricordi, niente di niente.
Non so dare un giudizio del libro nè del film che dal libro è tratto. Non posso, più che altro. Però penso che bisogna immaginare cosa significhi, cosa comporti. Io oggi sono io, domani divento qualcun altro che nessuno conosce, nemmeno io.
“Buongiorno. Sono la dottoressa Alice Howland. Ma non sono una neurologa e neppure un medico generico. Il mio dottorato è in psicologia. Ho insegnato alla Harvard University per venticinque anni. Ho tenuto corsi di psicologia cognitiva, ho condotto ricerche nel campo della linguistica e tenuto conferenze in tutto il mondo.
Ma oggi non sono qui per parlarvi in qualità di esperta di psicologia o di linguaggio. Oggi sono qui per parlarvi come esperta del morbo di Alzheimer. Non curo pazienti, non conduco sperimentazioni cliniche, non studio mutazioni del DNA né offro sostegno psicologico ai pazienti o alle loro famiglie. Sono esperta dell’argomento perché poco più di un anno fa mi è stata diagnosticata una forma presenile di Alzheimer.
Sentirsi diagnosticare l’Alzheimer è come essere marchiato con una lettera scarlatta. È quello che sono adesso, una persona affetta da demenza. E il modo in cui, per un certo periodo, mi definirò io, e poi continueranno a definirmi gli altri. Ma io non sono quello che dico o quello che faccio o quello che ricordo. In realtà sono molto di più.
Sono una moglie, una madre, un’amica e presto sarò una nonna. Provo ancora sentimenti, capisco e merito l’amore e la gioia di questi rapporti. Sono ancora un membro attivo della società. Il mio cervello non funziona più al meglio ma uso gli orecchi per ascoltare senza riserve, offro le mie spalle per piangere e le mie braccia per stringere altre persone malate come me.
…Per favore, non limitatevi a guardare la nostra lettera scarlatta e a cancellarci dalla vostra vita. Guardateci negli occhi e parlate con noi. Non spaventatevi e non prendetela come un’offesa personale quando faremo degli errori, perché li faremo. Ripeteremo le stesse cose, cambieremo posto alle cose e ci perderemo. Ci dimenticheremo come vi chiamate e cos’avete detto due minuti prima. Faremo anche del nostro meglio per compensare e nascondere le nostre lacune cognitive.
I miei ieri stanno scomparendo, i miei domani sono incerti, e allora per cosa vivo? Vivo giorno per giorno. Vivo nel presente. Uno di questi domani dimenticherò di essere stata qui davanti a voi a tenere questo discorso. Ma solo perché presto me ne dimenticherò non vuol dire che l’oggi non conta.
Non mi viene più richiesto di tenere lezioni sul linguaggio all’università o conferenze di psicologia in giro per il mondo. Ma oggi sono qui davanti a voi a tenere un discorso che spero sarà il più importante della mia vita. E ho il morbo di Alzheimer.”









QUELLO ERA L'ANNO Dennis Lehane - Boston, Massachussets










Eh, ma bello eh. Ma parecchio. C’è taaaanta robba dentro sto libro qua, ma tanta. C’è la Storia, il baseball, il conflitto razziale, la prima guerra appena finita, le gang, il terrorismo, la droga, il poliziotto bbuono e quelo cattivo/issimo, le disparità sociali, la limitazione drastica delle libertà civili, gli intrallazzi del potere. C’è Babe Ruth e ci sono Danny e Luther, il bianco e il nero (e Nora e Lila, ahò). C’è l’ammore colla A maiuscola e c’è l’AMICIZIA (tuttomaiuscolo). E poi c’è Boston, che è una città tanto cara al mio cuore.
Se volete na rece coi controfagotti pijatevilla, io, al solito, sproloquio in libertà:
” La prima famiglia è quella di sangue, non devi mai tradirla. E’ importante. L’altra famiglia è quella che uno va a cercarsi. A volte la trova casualmente. E c’è altrettanto sangue che nella prima famiglia. Forse addirittura di più, perchè questa famglia non deve badare a te e volterti bene. Sceglie di farlo.”

sabato 20 settembre 2014

HANOI Adriana Lisboa - Hanoi, Vietnam

No, non è un libro che fa ribaltare dalle risate. E' un romanzo che parla della resilienza e del modo di affrontare la morte. Parla dello sradicamento e anche di come talvolta si riesce a piantare le radici in terreni inaspettati.
"È quel che si fa per sopravvivere. Le persone trovano un luogo dove appoggiare il corpo. Può trattarsi di una finestra, dei resti di una parete in una città devastata dalla guerra, di un albero, di un divano". Poi ci sono incontri e amicizie che in qualche modo salvano. E c'è lo straordinario, divino potere della musica (e chi l'ha sperimentato sa di cosa parlo).















sabato 13 settembre 2014

IL LIBRO DELLE MIE VITE Alexandar Hemon - Sarajevo, Chicago

Sono stata molto indecisa se parlare di questo libro perchè credo che nessuna riflessione, sia pure partecipata e profondamente sentita, possa trovare le parole per dire ciò che mi ha smosso questa prosa sobria, limpida, priva di fronzoli.
Ho deciso comunque di provarci.
Hemon, nato a Sarajevo nel '64, negli USA per un corso di studi, decide, nel maggio '92, di non tornare in patria e chiedere asilo. Ci racconta della sua infanzia e adolescenza in Bosnia, di come si trovi per caso a Chicago quando la guerra arriva nella città natale, della sua decisione di rimanere negli U.S.A.; ci racconta episodi, cibi, sensazioni, partite di calcio, feste, amori, partite di scacchi, sradicamento. In brevi racconti ci narra la sua vita, le sue vite, e nell'ultimo, devastante capitolo, la morte.
A Chicago, solo, lontano dai suoi cari, dai luoghi in cui aveva acquisito la sua individualità, cammina, cammina, alla disperata ricerca di ciò che gli aveva dato Sarajevo, una geografia dell'anima.
"il tuo senso di quello che eri, la tua identità profonda erano determinati dalla tua posizione all'interno di una rete umana il cui corollario fisico era l'architettura della città."
Ci spiegano nitidamente, le sue pagine, cosa significhi essere "straniero", la fatica che occorre per imparare, di nuovo, a collocarsi nel mondo, a reinventarsi una mappa di senso, a ricostruire, mattone dopo mattone, la propria metaforica casa, ad individuare, come un naufrago che cerca una sponda, una luce, una terraferma, un'ancora, punti di riferimento che lo trattengano dalla deriva dello straniamento.
Uno sforzo quotidiano e certosino volto a ricreare la propria, personale infrastruttura del cuore.
Finchè, dopo anni, "Mi accorsi che il mio immigrato interiore aveva iniziato a fondersi con l'americano esteriore. Ampie parti di Chicago erano penetrate in me e lì si erano insediate, e quelle parti adesso le possedevo appieno. Vedevo Chicago attraverso gli occhi di Sarajevo e le due città ormai creavano un complesso paesaggio privato da dove potevano nascere le storie. Quando tornai dalla mia prima visita a Sarajevo, nella primavera del 1997, la Chicago cui feci ritorno mi apparteneva. Di ritorno da casa, tornavo a casa."
Ed ecco il commovente, incantevole capitolo "Ragioni per cui non lascerei Chicago: un elenco incompleto e senz'ordine", nel quale c'è una luce speciale, il freddo, la spiaggia, un campetto da basket, il colore del lago quando il vento soffia da nord, tutti i piccoli, intimi motivi che ci fanno amare un posto del mondo e ci permettono di chiamarlo casa.
Poi pagine che mi riportano in quei territori della memoria abitati da vergogna e senso di colpa, dove mentre di qua si viveva abitudinari, metodici, le nostre solite crisi politiche, i nostri momenti grati e ingrati, di là dal mare i cecchini sparavano, le granate esplodevano, in un mercato, in una fila per il pane, per l'acqua.
(Una di quelle vicende della Storia che più torturano, ancora oggi, la mia coscienza, pur avendola vissuta con accorata e smaniosa partecipazione, con rabbia e sgomento ma anche con la frustrante consapevolezza della mia impotenza e inutilità).
Ancora un episodio che mi ha toccato il cuore: nel dicembre ’93, i genitori, la sorella e il cane Mek arrivano in Canada ed Alexandar si precipita ad incontrarli: “Mek mi corse incontro scodinzolando, felice di vedermi. Ero stupefatto che si ricordasse di me dopo quasi 3 anni. Credevo che ampie parti di ciò che ero a Sarajevo fossero svanite ma, quando Mek mi posò la testa in grembo, qualcosa di me stesso fece ritorno”.
Mi fermo qui. Non vi parlerò dell’ultimo capitolo. Non riesco, non posso. Solo chi ha l'ha vissuto può raccontare con le proprie parole, provare a dire l'indicibile, perchè “proprio ciò che lascia senza parole deve essere raccontato".
Colonna sonora dell'autore: Patti Smith, Talking Heads, Led Zeppelin, Charlie Mingus.
 
Sarajevo















 
Chicago





 

venerdì 15 agosto 2014

VIRGINIA WOOLF - Monk's House Rodmell, Lewes, Sussex

E dopo il giardino di Vita come si può non parlare di Virginia?

"Anche la casa di Virginia Woolf oggi si può visitare; tutto è rimasto immutato nel tempo a Monk's House, entrando nel cottage sembra quasi di penetrare in un sogno antico. Ti accolgono le eccentriche pareti verdi per cui gli amici la prendevano in giro, e i bizzarri arredi ideati dalla sorella Vanessa e da suo marito Ben...Nello studio, la calma apparente. Il tavolo da lavoro piccolo ed essenziale è ancora lì. Come identico è lo scorcio che si gode dalla finestra: una siepe, la chiesa, la piccola vasca con gli iris acquatici, il vialetto della passeggiata quotidiana di Virginia verso il fiume. Sempre lo stesso percorso, sempre di pomeriggio dopo aver riempito pagine e pagine, prima a mano, poi rilette e corrette e infine ribattute a macchina....'So che Virginia non verrà attraverso il giardino dal suo studio, eppure guardo in quella direzione cercandola. So che è affogata eppure mi aspetto sempre di sentirla entrare. So che il libro è finito, ma io ancora giro pagina. La stupidità e l'egoismo non hanno limiti' ha scritto suo marito Leonard. Le sue ceneri sono state seppellite nel giardino di Monk's House, sotto il grande olmo."
Serena Dandini - Dai diamanti non nasce niente